mercoledì 1 maggio 2013

Casa Balboa di Mario Rocchi - recensione di Paolo Maccioni per Abel Book




Il libro storie di casa Balboa, storie di ordinario disordine, è un libro che lascia l’amaro in bocca. La considerazione generale che si può trarre da questo libro è che l’essere umano  non è che uno fra i tanti esseri di un universo caotico che non ha né capo né coda e che l’unica sua prerogativa è  quella di riprodursi utilizzando il corpo della donna per inseminarla. Questo istinto, comune a tutti gli organismi viventi, è stato dall’uomo perfezionato a suo uso e consumo in modo da trasformarlo in piacere. Finchè si può soddisfare questo piacere la vita ha un senso.  Dopo no.

Fatta questa premessa ne discendono tanti corollari che servono a capire il libro di Mario Rocchi.
Infatti il libro non ha una trama come la si intende comunemente, e cioè un principio e una fine e dove in mezzo è raccontata una storia. È invece una sequenza di episodi, tenuti insieme da un filo rappresentato da una famiglia disunita e litigiosa, che procede come se fosse una antologia di racconti, di piccole avventure, di barzellette, di squarci di vita cittadina, dove Lucca domina la scena, di riflessioni di ogni genere e il tutto suddiviso non già in capitoli, ma intervallati dalla presenza del cane Otto, considerato al livello di umano, e che, insieme ai commenti sul suo comportamento e ai dialoghi tra lui e il suo padrone, costituisce una delle parti più interessanti di tutto il libro.
Quello che mi mancava era Otto. Il suo affetto il suo amore. Era sicuramente sdraiato in camera mia ad aspettarmi. Chi è che disse che il cane è una macchina per amare? Aveva ragione. Anche tu fossi una persona perversa, quando il cane ti si affeziona, non mollerà mai, soffrirà se maltrattato, ma non verrà mai meno al suo affetto, al suo amore. Si dice che chi ama gli animali nasconde un profondo disprezzo per l’umanità. È probabile anche se io questo disprezzo non mi sembra di nasconderlo troppo.
Nel libro appaiono evidenti la natura libertaria del suo autore, la sua miscredenza nei confronti della religione le motivazioni unilaterali che lo ispirano ( la femmina, ma solo alcune parti di essa ben definite) e il senso di ineluttabile casualità che attribuisce all’esistenza. Tutte caratteristiche che si rispecchiano nell’andamento della famiglia descritta nel libro, con tutti i difetti, i problemi le angustie che comporta una vita costruita sul maledetto lavoro e sui pochi piaceri (uno e sempre lo stesso) e in cui il protagonista, pur essendo il capofamiglia, di fatto è un semplice membro della stessa.
Marco Rocchi usa un linguaggio forte, infarcito di parolacce, sguaiato come può esserlo un pescivendolo al mercato, ma non perché non conosce il vocabolario della lingua italiana usando il quale potrebbe sostituire forse anche più efficacemente quelle parole,  ma perché queste messe in bocca ai suoi personaggi o all’io narrante sintetizzano al massimo i concetti, rendendoli immediatamente percepibili da chi legge. E anche per pigrizia: perché infatti perdere tempo e lambiccarsi il cervello per descrivere una situazione di noia  o di disagio o di fastidio nei confronti di una persona o di un fatto o di un cosa verso la quale possono usarsi espressioni diverse a seconda delle emozioni, o degli umori o delle situazioni, quando basta dire semplicemente “mi ha rotto il c….” per esprimere ciò che intendeva dire? Lui stesso, nella biografia che siamo andati a spulciare dal suo blog, afferma che scrive in fretta e che scrivere non solo lo diverte, ma gli serve come seduta psicanalitica. La sua scrittura è dunque quella di chi sviscera tutto se stesso, e lo fa con piacere e, ad essere un poco volgari, termine che lui ritiene inventato dall’aristocrazia,  lo fa con la stessa soddisfazione dell’esaudimento di un bisogno corporale.
Il libro a tratti è divertente, a tratti surreale, a tratti umano, a tratti amaro,  sempre sboccato, sempre irritante, ma arrivi alla fine e non ti accorgi di essa. Rimane l’amaro.
Paolo Maccioni 1 maggio 2013 

venerdì 15 febbraio 2013

Messi d'oro sulla collina di Vincenzo Mereu





Recensione di “Messi d’oro sulla collina” di Vincenzo Mereu

di Paolo Maccioni

( Presentato alla Biblioteca di Flumini per Itamicontas, giovedì 17 gennaio 2013)

Nelle note contenute nel libro è scritto: Vincenzo Mereu, insegnante elementare e direttore didattico, scrive fiabe, poesie e romanzi. Trae le sue ispirazioni dalla bellezza della natura e dai grandi valori dell’uomo. Dello stesso autore il libro per ragazzi “il tacchino Glù Glù! Pupillo e Mandorlina.
Posso aggiungere che inoltre Vincenzo Mereu dipinge. La copertina del libro è tratta infatti da un suo quadro.
Il libro è composto di quasi 600 pagine, suddivise in 45 capitoli oltre la prefazione, ma  i caratteri adoperati sono molto grandi.
Devo dire che mi sono accostato a questo libro con un ingiustificato preconcetto, forse proprio perché spaventato dalla sua mole, pensando ad un suo contenuto prolisso e privo di argomenti sostanziosi. Il titolo del libro, poi, del tutto generico aveva forse contribuito a tale pregiudizio.
Però devo dire che già leggendo le prime pagine mi sono dovuto ricredere.
Intanto è bene dire che linguaggio è semplice e chiaro, pulito e limpido senza essere monotono o monocorde e, tra l’altro, contiene talvolta una sottile vena di ironia che lo rende più gradevole.
Nelle prime pagine è raccontato di una siccità devastante per la quale viene organizzata una processione e ci si sente subito immersi in un mondo che, sebbene appartenga al passato, è vivo e reale. In questa processione alcuni personaggi incominciano a delinearsi molto nettamente e con precisione descrittiva. In particolare Don Ferrucciu, personaggio importante del libro e simbolo di quella classe di signorotti che un tempo dominavano le scene in tutti i nostri paesi.
E insieme a lui Don Pietro, che nel libro non è una figura principale ma è invece importante sotto un aspetto non secondario. Questo prete, infatti, che nella processione porta una croce  sulle spalle è un personaggio molto vero e l’episodio in cui è raccontato come la croce fosse stata regalata alla chiesa da un ricchissimo conte che apriva i suoi granai a tutti i bisognosi, potrebbe essere reale. E nel libro sono presenti molti particolari della vita di fine ottocento e di come questa era organizzata, sia tra le classi più umili e povere sia tra quelle più ricche. Così troviamo spunti continui su come si lavorava, come si passava il tempo libero, quali erano i rapporti esistenti tra servi e padrone, insieme a  tanti altri aspetti che fanno si che questo libro possa essere apprezzato e considerato anche per il contributo che dà alla conoscenza di usi e tradizioni di un tempo.
Proseguendo nella lettura si è sempre più attratti dalla trama del libro, pur essendo questa di una estrema semplicità.
Le pagine corrono così via con il racconto della storia di Stefe e di Matilde. Lei figlia di Don Ferrucciu e lui operaio alle sue dipendenze prima e poi scacciato con infamia non appena il genitore di Matilda si accorge del rapporto amoroso esistente tra i due infelici innamorati.
Dopo una serie di circostanze i due si ritrovano un giorno soli, in casa di lei. E qui vi è un tripudio all’amore raccontato da Mereu con passione e con uno stile che ricorda i nostri massimi scrittori classici.
Vi sono nel libro molte immagini che contengono motivi della nostra tradizione, come i brani in cui sono descritti i preliminari ad una grande festa che i genitori di Matilde avevano organizzato nella previsione del suo fidanzamento con un partito di loro gradimento, così come si usava allora, e cioè utilizzare le figlie da maritare come merce di scambio e senza tener conto della loro volontà.
La preparazione della festa che si compendierà nel pranzo del mezzogiorno e la esecuzione della stessa hanno una parte rilevante nel libro, ed in essa Mereu ha l’opportunità di manifestare tutta la sua bravura, la capacità di raccontare il vissuto, la originalità delle situazioni che si presentano a volte comiche a volte tragiche, la fantasmagorica presenza della servitù, la facilità dei dialoghi, il tutto condito con un pizzico di umorismo, di cui ho accennato prima, che rivela i lati caratteriali dei personaggi a volte mettendoli in ridicolo a volte mettendo in risalto le loro virtù.
Nel romanzo sono molto frequenti intermezzi in cui l’autore esprime dei giudizi sui personaggi e sulle loro azioni e che rivelano lo spirito di saggezza cristiana che pervade il suo modo di sentire. Come quello che vi proponiamo:
“Nel mistero dell’animo umano nascono nuovi mondi ed altri scompaiono, come per incanto, come spazzati via da turbini ingovernabili della vita. Le immagini nascono e muoiono, come le dune nel deserto, lasciando dietro di sé amarezze e rimpianti e creando promesse e spazi entro cui la fantasia edifica nuove felicità che ci trascinano e, talvolta ci travolgono.”
Paolo Maccioni

mercoledì 13 febbraio 2013

Il bambino dalla milza di legno di Antonello Monni


Il bambino dalla milza di legno di Antonello Monni
Recensione di Paolo Maccioni






Questo suo primo libro ha delle particolarità che lo distinguono da tutti gli altri libri.
 Innanzitutto per il suo linguaggio, infatti l’autore usa contemporaneamente due lingue, il sardo e l’italiano in cui la parte scritta in italiano è prevalente ma ciò che è scritto in sardo, poi tradotto in italiano, è concettualmente più importante.
Inoltre è particolare anche per il suo contenuto. Si tratta di vicende che sostanzialmente riguardano  gli anni dell’infanzia che Antonello Monni ha trascorso soprattutto a  Oliena, nella casa padronale della sua famiglia, e quindi si tratta di un libro in larga parte autobiografico, ma relativo solo a quegli anni e a quei luoghi a lui congeniali rappresentati dal territorio che circonda il paese. 
Poi è particolare per i suoi personaggi che sono tantissimi e speciali, e sui quali alcuni emergono e si impongono alla attenzione del lettore. 
Il libro consiste in una serie di raffigurazioni che inserite nel territorio prediletto dall’autore  illustrano come splendidi quadri situazioni che Monni ha vissuto nella sua infanzia e dove la natura nel suo complesso di uomini, animali, alberi, monti e tutto il creato che vi è intorno, ha un posto  assolutamente preminente.
Alla parola raffigurazione potrei aggiungere anche un aggettivo,  che è :musicale. Si tratta di quadri musicali cioè. Si, innanzitutto perché il parlare del sardo logudorese, così come è scritto nel libro e come sembra proprio di sentirlo dalla viva voce di chi pronuncia le parole, hanno una cadenza melodiosa.
Inoltre vi sono tanti momenti in cui dalle parole fuoriesce  l’armonia dei luoghi che vengono descritti: così sentiamo chiocciare le galline, frusciare il bosco, cinguettare gli uccelli, sentiamo il respiro della volpe, il cadere delle gocce d’acqua dalla sorgente, il nitrire dei cavalli e così via.
Ora, è molto facile cadere nel retorico nel dire queste cose, e poi, a dire la verità,  non tutto nel libro  è così idilliaco. Vi sono aspetti che fanno ricordare la miseria che per tanto tempo ha regnato incontrastata in quei luoghi come in tanti altri della Sardegna. Come la descrizione della fame del contadino nel seguente brano:
La fame del contadino lascia spazio alla speranza e concede lunghe tregue, ma deve fidarsi della terra, del vento, del fuoco, dell’acqua, del sole, del gelo, degli uccelli, delle cavallette, dei vicini, delle capre, dei padroni, del suo lavoro, della buona sorte.
I nostri campi non sono fertili e ubertose pianure, ma radure sassose, intricate da radici profonde di macchie di lentischio e olivastro, antiche come la sete di secoli, dure come le pietre che devono spezzare per trovare l’acqua. Con quelle radici deve lottare il contadino per sopravvivere.
A quelle radici forti, col picco, la scure, le mani, la vanga, deve sostituire i semi del grano e dell’orzo; a novembre, se piove.
Attende altra pioggia, ma è troppa, scrosciante, porta via in sabbia la terra ed i semi.
Cessa la pioggia.
Rispera ed attende ancora, e guarda il verde leggero del grano, dal basso che sembra più verde e conta le spighe che già vede mature, e ci crede e ci spera.
A casa ha tre figli e una giovane moglie.
La neve. La neve e la brina; se è troppa è la fame.
A marzo ed aprile è una lotta con l'erba: è più forte del grano; è più forte, ed è tanta; con radici tenaci e deve zappare ogni solco e ogni spiga.
Se piove rispera.
Il sole. Il vento piega le spighe verdi, e i papaveri rossi; è bello vederli rossi tra il verde.
A casa ha tre figli e una giovane moglie.
...Lámpanas... Tribulas... Giugno ... Luglio ...
Ha circondato il suo campo di pietre e di spine; lo ha protetto dal morso di vacche e maiali; ha ancora paura del fuoco.
A casa ha tre figli e una giovane moglie. Miete col sole di luglio coi figli bambini e la giovane moglie.
         Il piccoloAntonello iniziava appena la sua carriera scolastica e agli insegnamenti della scuola aggiungeva quelli che gli venivano direttamente dal contatto con la natura. Naturalmente i genitori e tutto il mondo di persone che ruotavano intorno a lui e che a lui badavano erano attenti a scoprire le sue inclinazioni per poter poi indirizzarne gli studi che avrebbero costituito la sua preparazione alla vita. Ma dovevano fare i conti con una naturale e per loro quasi incomprensibile predisposizione di Monni per la vita animale.
Infatti, nel mondo del bambino assumevano un posto preponderante gli animali che lui osservava con curiosità sempre crescente. Gli interessava molto di più il belare delle capre oppure i dispetti che a turno si facevano tra loro le cavalle, che non, a scuola, il fare le aste forzando innaturalmente la mano destra dato che lui era mancino e, a quei tempi, quel fatto veniva considerato un difetto da correggere.
Lui si sentiva felice quando poteva incontrare nel suo paradiso speciale di Corte ‘e Josso la cavalla Isabella, la capra Galatea e Bitteré la capretta nata da Galatea.

Crescendo era l’esterno ciò che maggiormente attirava Antonello, ciò che vi era sulle montagne, nelle foreste, chi vi abitava, come era la vita che vi si svolgeva. Tutte curiosità che via via troveranno risposte ora semplici ora complicate spiegate da personaggi che saranno indimenticabili.
Uno di questi si chiama Lussuglieddu. Vi sono momenti in cui le parole e gli atti che compie questo piccolo servo pastore dimostrano una saggezza e una sensibilità fuori dal comune considerando anche che si tratta di un semplicissimo pastorello di capre di appena otto o nove anni.
Con lui Antonello lega subito, dal momento in cui Lussuglieddu lo invita un giorno a seguirlo insieme al gregge che governava.
Ajo’ venis a monte? E lui gli risponde
Emmo benzo, si vengo
Da quel momento diventano amici inseparabili trasferendosi l’un con l’altro esperienze ed emozioni.
 
Antonello andò con lui al monte, e ne rimase affascinato. La compagnia di Lussuglieddu fu estremamente importante. La sua maturità, il suo comportamento, la sua intelligenza, sono emblematici di quell’ambiente pastorale che ha radici tanto profonde che ancora oggi non è scomparso del tutto. È un ambiente che fa dell’uomo pastore barbaricino il re del creato, dove tutto discende dal monte e il monte è il centro dell’universo e dove oltre il monte c’è solo periferia.  Caratteristica è a questo proposito la considerazione di Gargagiu, un altro personaggio del libro di cui parleremo tra poco, che considerava tutta la zona di Castiadas né più né meno che semplici territori destinati alla transumanza dei pastori Olianesi.
E Lussuglieddu non fa eccezione alla regola: nel suo comportamento e nelle parole che dice, nella consapevolezza della situazione sua nei confronti di Antonello. vi è qualche cosa di superiore, di nobile, di regale.
Il cuore e la mente di Monni è aperta a tutte le esperienze che gli può dare  la campagna montagnosa di Oliena, la vita piena che vi si svolge al suo interno, i suoi infiniti personaggi  che la animano.
Tra questi vi è anche Pompeo, il bambino idropico che ha dato origine al titolo del libro e che insieme ai suoi genitori è protagonista di una storia intrisa di sentimenti delicati, ironici, tragici e comici.  Che, da sola, potrebbe riempire le pagine di un intero romanzo.
Un personaggio che però assurge nel libro al rango dei principali è Gargagiu.
Descriverlo non si può perché lo ha fatto talmente bene Antonello Monni che dire qualche cosa di più sarebbe inutile.
Era come un grande albero in una foresta: da bambino ti sembra grandissimo e vecchio, poi, dopo molti anni lo ritrovi ed è uguale, sei tu ora molto più vecchio; lui, l'albero, è come Gargagiu. Solo che Gargagiu era un uomo, un uomo di muschio però. 
Ero vicino al paese, lungo il sentiero che da Masiloghi sale a Sèttile; …e ad un tratto Gargagiu venne fuori da un cespuglio, senza il minimo rumore di foglie smosse, come un Gatto.…
Si sedette, non molto vicino, con il vecchio zaino militare, il  cappotto grigio-verde della prima guerra, le fasce, i calzoni stretti alle ginocchia, il colore del muschio.…
Lo vidi come era, ma a casa, nel cortile vicino al portone non ci avevo badato. Era come ...nel film di “Addio alle Armi”, direi ora. Ma erano passati almeno trent'anni da quella guerra, e lui vestiva ancora così.
Il libro è composto di tante trame: tutte le esperienze che il bambino ha fatto negli anni della sua infanzia diventano avventure di tutti i generi, sia di persone come quella di una certa Tzia Podda e i suoi mattoni fattti coi piedi, sia di animali come quella di un perniciotto volato inutilmente verso la libertà,  o anche quelle di semplici cose come le grotte in cui vi erano celati i misteri più impensati, o tante altre che è impossibile dirle tutte.
In questo libro Monni ci fa ritornare a vivere le origini del nostro  mondo, quando gli uomini vestivano di pelli e si cibavano di ciò che cacciavano. In tutto l’universo variopinto da lui descritto assaporiamo il senso della umanità vera, quella che accomuna ogni essere vivente, uomo o animale che sia, e che è la consapevolezza del proprio breve destino, e la rassegnazione per la propria sorte che non si pretende di cambiare, ma viene accettata con serenità e umiltà.


martedì 27 novembre 2012

Loro parlano con i tacchini di Carlo Corda



     Abbiamo appena sentito a bellissima canzone “Memory” che ci ha un po’ allontanato dalla realtà facendoci sognare, e noi rientriamo nell'argomento principale della serata parlando del libro. E iniziamo dal titolo: “Loro parlano con i tacchini”.
È un titolo insolito e immediatamente fa pensare ad un romanzo umoristico. Chi infatti può pensare di parlare ad un tacchino se non un burlone, uno incline alla comicità o uno svitato? E, in parte è così perché certamente si tratta di persone che normali non sono.
Quando una persona viene colpita da un dolore tanto forte da essere quasi certo di non riuscire a superarlo, quando arriva sull'orlo dell’abisso definitivo dal quale poi non si riesce più ad emergere, subentra in lei una trasformazione.
Questa trasformazione può portarla ad uno stato di esaltazione tale da fargli compere atti di follia imprevedibili e fuori dal comune oppure ad uno stato di autodifesa. E in questo secondo caso la mente  si sofferma su altre cose, forse più semplici, si addentra in particolari per gli altri inconcludenti, si attarda su minuscoli episodi che agli occhi dei più sono del tutto irrilevanti, vaga con il pensiero fuggendo da una parte e dall'altra cercando qualche punto fermo su cui appigliarsi, ode suoni diversi da quelli che sentono gli altri, parla in modo differente e si rivolge anche a chi non può né capirla né rispondere, come appunto i tacchini. Cerca insomma di sopravvivere ad uno stato di cose che altrimenti lo porterebbe all'annientamento facendolo precipitare in un profondo e misterioso buio.
Meglio però di questa mia descrizione lo spiegano le parole del libro.
 “Mi tornò alla memoria quello che, anni prima, mi disse un giovane, anche lui ricoverato nell'istituto psichiatrico del continente dove ero stato trasferito provenendo dalla Sardegna: "L’esperienza mi ha insegnato che ci sono due tipi di follia, c’e quella caratterizzata da uno stato di demenza totale e, in questo caso, chi ne è affetto è un infelice e ha il destino segnato. Ma c’è anche l’altra follia, quella nostra, che è diretta  conseguenza delle circostanze della vita, e che lascia sempre aperto un varco alla speranza. Non ti umilia, non ti deteriora nel corpo, non ti toglie la capacità di amare, di pensare, di sognare, di fare progetti, anzi, ti fa sviluppare abilità delle quali non avevi consapevolezza. Noi matti riusciamo a vedere nel buio e attraversiamo la strada a occhi chiusi, noi dialoghiamo con gli uccelli, noi parliamo coi tacchini, noi sappiamo scrivere poesie, noi abbiamo la ferocia del leone e la tenerezza della madre verso il figlio appena nato. Niente ci è precluso, noi  matti possiamo tutto”.
Quindi abbiamo appurato che non si tratta di un romanzo umoristico. Al contrario il libro assomma una serie di sentimenti gravi e solenni come quello della morte, della malattia, della follia.  Ma non si deve nemmeno pensare che il libro sia una specie di trattato sulla malattia che porta gli essere umani a diventare matti o che si esaurisca nella disamina di disturbi mentali. 
 Si. È vero. Nel titolo vi è racchiuso in estrema sintesi tutto il romanzo: si tratta di episodi che riguardano loro, i matti, ma quelli che però sognano, fanno progetti, dialogano con gli uccelli, amano.
Il libro, infatti, è il racconto semplice e affascinante di un medico che dopo fatte le sue prime esperienze da laureando e appena laureato incomincia la trafila della sua vita con il percorso accidentato che la professione gli riserva fino ad arrivare alle soglie della maturità. E in tutto questo periodo vi sono una serie di episodi riferiti a lui direttamente ma anche ad altre persone che hanno a che fare con quel dolore che è causa della follia .
E il libro racconta questi episodi non con la pesantezza della tragedia senza rimedio, ma con la serenità che  da la consapevolezza dell’incombere su tutti noi di possibili tragici eventi e del loro necessario superamento proprio per non cessare di esistere. Anzi, sapendo che quando le persone si trovano in quello stato vi è sempre qualcuno dall'alto che le guarda.
Nell'esaminare il romanzo e nel parlare di questo  non ci interessa sapere che le vicissitudini capitate a Efisio sono fatti veri e riferibili a persone in carne ed ossa. Questa può essere una curiosità alla quale l’autore del libro se vuole potrà dare risposta, ma a noi interessa lo scorrere del romanzo al di là della sua aderenza alla realtà.
Le avventure in esso contenute ci avvincono con il loro drammatico svolgersi. I personaggi sono tanti e diversi l’uno dall'altro legati insieme da un destino che li ha accomunati in un percorso doloroso e che dopo una serie di episodi, nella parte finale, ci porta a fare il tifo per Elisa malata di cancro e per come  affronta la sua terribile realtà.
Abbiamo seguito con apprensione le sorti di Elisa come se si trattasse di un nostro familiare e ne condividessimo le angosce e i patimenti. Il romanzo ci prende la mano, ci coinvolge emotivamente, ci lascia con il fiato sospeso al momento delle sue risoluzioni, ci fa partecipare al dolore della famiglia.
Questo significa che lo scrivere di Carlo Corda è incisivo, non lascia spazio a facili sentimentalismi o a patetiche malinconie. Da un certo punto di vista è scientificamente spietato, ma lo scrittore c’è. Chi ha scritto questo libro non è solamente un uomo che ha messo sulle pagine il proprio diario di vita vissuta, ma è uno scrittore che ha scritto un libro di cui ricorderemo per sempre le vicende. Grazie a tutti.
Paolo Maccioni



mercoledì 31 ottobre 2012

Maurizio Pompei: noir come nero


(recensione per Abel book)


     Si tratta di tre racconti noir scritti con un linguaggio denso e provocatorio, in quanto tendono a rappresentare realisticamente l’ambiente in cui ci si muove, al quale, dopo poche pagine di iniziale sconcerto, ci si abitua facilmente. Maurizio Pompei scrive, infatti, in  modo essenziale e non si perde in fronzoli. I concetti sono espressi con tratti fulminei in modo da dare immediato risalto all'azione. Il percorso da lui seguito per concludere il racconto è rapido, quasi frettoloso, scevro da inutili appesantimenti descrittivi, per cui le pagine scivolano senza fatica e l’ansia insita nell'agire del protagonista dei racconti, nel primo e  nel secondo l’autore parla in prima persona, si inserisce gradatamente anche nel lettore pur smaliziato costringendolo a seguire velocemente le vicende narrate per giungere alla conclusione.
     In una sola pagina vi sono tante azioni, nel nostro caso azioni poco commendevoli, il libro è dichiaratamente un noir, e  solo di tanto in tanto l’autore abbandona la sua cruda esposizione dei fatti per lasciarsi andare a qualche considerazione che è insieme  un ricordo sbiadito del senso di pudore, o un desiderio infantile e  particolare, che gli fa pensare: ...
                 la nostra vita  è costellata di vaste zone d’ombra che ci nascondono il senso delle nostre scelte, dei nostri errori. Bisognerebbe che ci fosse qualcuno che registrasse tutte le nostre azioni e poi ce le facesse rivedere. Una stiratrice delle nostre  pieghe, dei nostri meandri e ci presentasse tutto ordinato, pulito. Invece nulla, tutto rimane spiegazzato e ti ritrovi sempre più solo, sempre più emarginato, sempre più …

            dove può intravedersi quasi una giustificazione all'agire sconsiderato e folle di certe persone accecate da presunzioni e pretesti diversi per compiere le loro infamità. 
     Sono soltanto piccoli intermezzi che interrompono la serie infinita di scene cruente e orripilanti descritte nel romanzo tanto che il lettore si chiede, almeno nel primo dei racconti che è anche il più significativo e il più lungo, come il protagonista riuscirà a venirne a capo.
     Invece la soluzione arriva puntuale e in perfetta sintonia con il resto del racconto, ma  non sarò certo io a raccontarvela …

Posso solo dirvi che leggerei volentieri qualche altro racconto di Maurizio Pompei.

Paolo Maccioni

lunedì 6 agosto 2012

Mara non gioca a dadi di Luciano Modica

Recensione di Paolo Maccioni


Mara non gioca a dadi è una storia semplice e collaudata da tanti film e libri che più o meno raccontano avventure di mafia, di donne e di ispettori di polizia. 
In questo caso la protagonista femminile è Mara che da sola riesce a sgominare una intera banda di criminali che avevano l’ambizione di dominare una città senza farsi notare troppo per eludere in tal modo le pressioni delle locali forze dell’ordine. 
Il racconto sembra fatto a misura di qualche  regista che voglia farne una serie televisiva. Vi sono infatti tutti gli elementi che possono interessare gli abituali amatori di quel genere di film: vi è l’eroina con la sua storia d’amore,  vi è l’ispettore di polizia mezzo filosofo con la moglie che gli consente di abbandonarsi al calore dei piaceri casalinghi,  vi è il suo consulente buddista, vi è la polizia con la sua immancabile talpa dentro l’apparato, vi è infine la mafia con i suoi giochi di potere, con il suo linguaggio crudo, le male femmine e tutto l’apparato che milioni di spettatori conoscono e  continuano a richiedere alle fiction televisive di tutto il mondo e che si presta ad una tale vastità di ramificazioni avventurose  da poter continuare all’infinito.
L’autore ha scelto di chiudere l’argomento con un finale dolce che accontenta tutti, ma potrebbe riaprire l’argomento in ogni momento e ad ogni esigenza. Le occasioni sono infatti molteplici e l’inventiva dell’autore è tale che non gli sarebbe assolutamente difficile.
In definitiva il libro è leggero, si legge in un battibaleno perché il lettore si lascia prendere dal gusto della  trama e cerca di scoprire velocemente come andrà a finire, un po’ come succede nei fumetti.  Il racconto, infatti, scivola senza sbavature e senza particolari eccessi che  possano influenzare la credibilità degli episodi. E questo sembra in effetti essere l'interesse precipuo  che l’autore richieda al lettore anche se in qualche caso, come nella spiegazione del titolo, in cui il riferimento è la disquisizione intellettuale tra filosofi sulla casualità dei fenomeni per cui  Dio gioca a dadi oppure no, potrebbe sembrare che vi siano diverse e più profonde esigenze. Ma sono solo pochi lampi che, semmai, indicano il substrato culturale di Modica e fanno eccezione alla regola. Il libro è perciò assolutamente consigliabile a chi non voglia dedicarsi a pensare troppo a quello che legge ed è da annoverarsi, ammesso che i libri possano etichettarsi come qualunque altra merce, tra i cosiddetti libri d’evasione. E in questa categoria Luciano Modica può collocarsi a buon diritto tra quegli scrittori che riescono a catturare l’attenzione del lettore riuscendo soprattutto a tenerla desta fino alla fine del libro. E non è poca cosa. 
Paolo Maccioni

mercoledì 18 luglio 2012

Il pettine senza denti


Il pettine senza denti


Gentili signore e signori grazie della vostra presenza. Ringrazio la Biblioteca di Quartu e di Flumini che, come al solito ci da una mano sia nel permetterci queste serate nel suoi locali, sia nell’aiutarci per l’organizzazione delle stesse.
Il libro che presentiamo questa sera è intitolato “Il pettine senza denti”e il suo autore è un giovane che scrive con il pseudonimo di Eugenio Campus ma il suo vero nome è Sergio Casu.

Non mi dilungo nel leggervi la sua ancora breve biografia che trovate comunque sul suo sito internet.

Oltre che scrittore e editore, sua è infatti la casa editrice Applidea, scopriamo che Sergio Casu è anche fotografo ed ha al suo attivo una mostra tenutasi nel 2009 alla Vetreria di Monserrato dal titolo “L’Africa non è così nera”, nonché organizzatore di eventi come il concorso "Parole in corsa 2009 - scrivi e scatta".

Il pettine senza denti è stato pubblicato nel 2008, da Applidea ed è il secondo romanzo pubblicato dopo “ Anima mediterranea”.

Il romanzo Il pettine senza denti ha avuto grande ripercussione in tutta Italia e, tra l’altro, è stato presentato a Milano alla libreria Feltrinelli da Franca Rame alla presenza di scienziati e personaggi importanti che si occupano dei problemi denunciati nel libro. E anche in Sardegna sono numerosissime le presentazioni di rilievo che il libro ha avuto,  diffuso tra l’altro in quasi tutte le biblioteche dell’Isola.
Ringrazio perciò l’autore per essere oggi presente a Flumini per parlarci del suo libro.
Prima di dargli la parola vorrei dire che un romanzo come questo, col suo carico di intrighi internazionali, ambientati in un clima mediterraneo come quello della Sardegna paragonabile per suggestione di immagini ad un’isola tropicale del Sud America o giù di lì, ebbene, se fosse frutto di uno scrittore americano, o anche semplicemente supportato da una delle nostre poche case Editrici Italiane che assorbono la maggior parte del mercato letterario italiano, ne avrebbero fatto un best seller da milioni di copie vendute in tutto il mondo con relativo seguito di film e documentari.
Ma siamo in Sardegna, culturalmente ignorati o quasi dalla stampa nazionale, estremizzati e non competitivi nei confronti del resto della popolazione letteraria italiana.

A questo proposito se mi permettete vorrei aprire una parentesi per  dire che quando uno scrittore sardo si afferma è perché è nuovo, come Niffoi o Michela Murgia e stupisce. Cioè allo scrittore sardo perché si  affermi in campo nazionale e oltre si richiede di più che agli altri, deve essere assolutamente eccezionale nel senso letterale del termine che cioè deve fare eccezione alla regola e quindi deve per forza farsi notare, deve stupire. Ricordate Gavino Ledda con il suo padre e padrone?
Invece i nostri scrittori sono tanti e tra questi ve ne sono di bravissimi. Scrittori che,  oltre che autori, curano l’editing del loro libro con l’aiuto quasi esclusivo della moglie o la madre o la sorella, e senza nessuna scuola,  nessuna casa editrice a consigliare o indirizzare e non devono mai ringraziare  nessuno ( guardate la sfilza di ringraziamenti in quasi tutte le opere di autori affermati) perché nessuno ha fatto niente per loro. Lavorano isolati. Devono cercarsi a fatica  un editore che pubblichi il loro lavoro talvolta pagando a caro prezzo la loro voglia di esprimersi quando addirittura non sono costretti a diventano editori di se stessi.

Perciò doppio merito ad un libro come questo che si impone all’attenzione della critica nazionale.

Chiusa questa parentesi voglio dedicare solo due parole alla trama e al contenuto del romanzo.

Il libro inizia con una introduzione su Violante Carroz.  Sappiamo  chi era questa potentissima donna che intorno al 1500 era padrona di mezza Sardegna, se non altro perché al suo casato è intitolata una via di Cagliari.
Ma a noi interessa solo l’ultima parte della sua vita, quella che la vede pretendere dal parroco di Quirra l’annullamento del suo ultimo matrimonio per potersi risposare, con Berengario. Al suo rifiuto e al successivo tentativo di mercanteggiamento, Violante fa uccidere il parroco.
Leggendo queste realtà storiche viene da pensare, con una certa rabbia, a quanta prepotenza e quanto potere erano detenuti nelle mani della nobiltà di allora, tanto da ritenersi superiori a tutti, persino a Dio.  Potere che avrebbe potuto essere esercitato anche un pochino per il bene comune della Sardegna, ma che invece, almeno a mia conoscenza, è stato solo utilizzato per svolgere nel modo più vessatorio possibile la loro funzione di esattori, chiusi nelle loro piccole o grandi corti a intessere trame dinastiche ad uso e consumo dei loro personali interessi.

Andando avanti nella lettura del libro, notiamo altre figure di donne. Tra queste suscita curiosità quella dell’accabadora, che la maggior parte di noi ha imparato a conoscere dal libro di Michela Murgia, intitolato, appunto L’Accabadora.  Ma i tratti salienti della sua figura e della sua attività poco edificante, come possiamo ora constatare, erano stati già tracciati da Casu nelle pagine di questo libro, in cui la sua figura è rappresentata con molte sfaccettature di verità e di leggenda.

Dopo esserci ambientati nella conoscenza del romanzo, che si svolge in tre strati di tempo, assimiliamo le avventure dei personaggi principali e nel momento in cui ci si immedesima negli avvenimenti raccontati dall’autore, risaltano le loro personalità,  ed è in questa fase che specialmente la figura di Stefanina  esplode e permea di se stessa tutto il resto del romanzo, perché la sua figura di donna, con le sue angosce, le sue titubanze, la sua voglia, la sua intelligenza, la sua carica di umanità la sua curiosità, è la figura di spicco che è stata descritta dall’autore non solo con il cervello e l’abilità del linguaggio ma soprattutto con il cuore. E il lettore lo capisce.

L’altra chiave di lettura del libro, che forse è quello al quale l’autore vuole dare più risalto, è l’inizio di una indagine a tutto campo e una denuncia per crimini contro l’umanità che, il più delle volte si fanno contro ignoti, in questo caso ignoti non sono perché di essi si conoscono nomi e cognomi in quanto il criminale è nientemeno che il nostro Stato, la nostra forza armata, il nostro ministero della difesa, il nostro apparato burocratico compresi SISMI, servizi segreti e via dicendo. E il crimine commesso è quello di aver lasciato ammorbare il territorio di Quirra per pure speculazioni economiche impronunciabili provocando conseguenze terribili come malattia e morte dei suoi abitanti.
Spiaggia di Quirra sottratta al turismo a causa degli esperimenti militari
Il libro di Casu, o Campus, come preferite tratta un argomento che meriterebbe da parte della collettività sarda una attenzione ben maggiore di quella che  ha.  Se è vero quanto descritto, e l’autore ce lo racconterà nel dettaglio, ci sono tutti gli estremi perché la popolazione sarda si sollevi con una sola voce per chiedere a tutto campo il massimo del risarcimento non soltanto per i danni subiti, ma anche per quelli che potranno insorgere nel futuro a causa di quelle scellerate speculazioni nazionali esercitate all’insaputa e sulle spalle di tutti noi sardi che viviamo in questa isola bistrattata e considerata ancora dal potere come terra di conquista. 
Paolo Maccioni